IL DRAPPELLONE DI DI JULLO È UN ELEGANTE E DELICATO DIPINTO DIDASCALICO

News inserita il 26-06-2023 - Palio

Applausi per il pittore dei cavalli che danzano

E’ di Roberto Di Jullo il drappellone per il Palio del prossimo 2 luglio dedicato alla Madonna di Provenzano.

L’opera presentata questo pomeriggio nel Cortile del Podestà di Palazzo Pubblico è un elegante quanto delicato dipinto didascalico, capace di generare una narrazione completa e puntuale del Palio nel pieno rispetto della tradizione, in cui non mancano cenni storici della città, ma anche della vita dell’uomo che l’ha dipinto, Di Jullo. Un racconto, una “fotografia” del passato e del presente.

In alto, a protezione, il volto di una Madonna bambina con velo avvolto da un’aura di luce oro e una dedica: A te advocata nostra. Accanto una rosa blu i cui petali raccolgono due iniziali, quelle dei nomi della moglie Paola e del figlio Robert.

Primo capitolo di questo racconto su tela di seta.

Sotto, quasi in dialogo con la Vergine, in una tensione aspirazionale, un cavaliere che con forza propende il braccio al cielo. Indossa un’armatura segnata dalla lettera F. Un’altra dedica del maestro all’altro figlio Federico, prematuramente scomparso, ed ora protagonista nella storica battaglia di Montaperti che, nel 1260, vide le truppe ghibelline di Siena sconfiggere quelle dei guelfi di Firenze.

Al centro del drappo, il secondo capitolo di grande impatto visivo. Un gruppo di 10 cavalli, elemento stilistico di Di Jullo. Trasmettono forza e impeto. Caratteristiche richieste su un campo di battaglia, che sia Montaperti o l’anello di Piazza del Campo. Ma anche fluidità. L’altra cifra figurativa del pittore molisano. Destrieri e cavalli rappresentati in un momento di guerra dove domina un cromatismo che è un chiaro richiamo ai colori del tufo sul quale, due volte l’anno, i senesi combattono la loro personalissima “guerra” di amore e passione. In mezzo a questo tumulto di muscoli, zoccoli e teste, un altro frammento importante della storia di questo artista che ha visto realizzare il desiderio di dipingere il Palio. Un racconto affidato nuovamente alla simbologia con lo stemma di Pescocostanzo, città in cui lavora, quello di Siena, di cui si è innamorato, della sua regione nativa ed infine della Regione Toscana.

Il confine tra il vibrante campo di battaglia, luogo popolato solamente da uomini e cavalli, e quello figurativo che descrive l’ “attesa”, è tracciato da un canape dipinto con un effetto 3d. Questo terzo capitolo è declinato tutto al femminile. Un vero e proprio tributo alle donne. Corpi rotondi e pieni che rimandano ai Bàrberi, le palline in legno dipinte con i colori delle Contrade con le quali i bambini senesi giocano al Palio.

Fanciulle e mamme con i loro piccoli, avvolte, quasi protette, dalle bandiere che indicano le 10 “consorelle” che si sfideranno in Piazza. L’araldica contradaiola rappresenta il loro nome. E’ dalle espressioni dei loro volti che emerge il pathos dell’attesa, la bramosia della vittoria.

Roberto Di Jullo con la sua opera è indubbiamente riuscito a sintetizzare storia e tradizioni senesi, ma con il valore aggiunto di trasmettere intense sensazioni in chi la guarda.

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La Presentazione del Drappellone di Roberto di Jullo, il pittore dei cavalli che danzano (Duccio Balestracci

Hanno una caratteristica particolare le figure di Roberto Di Jullo: non mostrano fissità, ma sembrano colte – sempre e tutte - in un movimento di danza.

Danzano i cavalli dei suoi quadri. Danzano le donne che, anche quando sono sedute e apparentemente immobili, danno vita a un respiro che ha il sapore di un’antica danza sacra di sapore antico, classico.

Le figure sembrano comunicarsi, fra sé, movimento e armonia; i cavalli si intrecciano in un segno che è moto e energia pura, avviluppati in un nodo che sviluppa forme nuove, materia indisciplinata e riottosa a ogni coercitiva domesticazione.

Eccolo qua il Drappellone di questo Palio di luglio 2023: al centro lo slancio dei cavalli supera il canape in caduta, reso tridimensionale dal gioco dei chiari e degli scuri, e si getta nella corsa che, però, non allude, scontatamente, ai tre giri di Piazza, perché le figure esplodono in maniera centrifuga, insofferenti dello spazio nel quale sembrano essere costrette, e si slanciano a sfondare le linee di confine del drappellone, trasformando il momento immanente nella proiezione di un altrove di assolutezza.

Volevate una metafora più forte di questa per definire la corsa senese?

Ogni corsa, ogni carriera è, certo, un qui e ora, ma è anche il ricongiungersi del banale tempo dell’evento con un tempo metafisico della nostra festa, che non appartiene al contingente, bensì al “sempre” della sua storia, in cerca di una desiderata dimensione di eternità.

Ma se l’irrequieto groppo dei cavalli occupa il centro della scena, quel che c’è intorno, dietro e sotto è un completamento concettuale che volutamente evoca e intreccia sensazioni e emozioni.

Quel che si intravede dietro i cavalli che irrompono è un nembo biancastro, un’evocazione della polvere che si leva al loro galoppo.

Un nembo? Ma nemmeno per sogno.

Da quell’evanescente e confuso biancore emerge una battaglia, controscena della battaglia che in primo piano si danno i cavalli, con cavalieri che si scontrano violentemente, mentre due di loro, con un gesto del braccio, sembrano indicare la figura della Madonna in quella che (si lascia all’interpretazione di chi osserva) può essere tanto un’invocazione quanto una convocazione sulla scena. E dal tutto, si levano – sempre verso la Madonna – striature evanescenti come cirri leggeri: una metafora di preghiera? o il manto protettore della Vergine su tutta la narrazione? Personalmente propendo per quest’ultima interpretazione perché quelle linee evocano il canto d’amore, di scarico della tensione, di gratitudine che si urla a squarciagola – musicalmente sgraziato, ma stonatamente armonico – che ciascuno di noi (credente o no: questo non importa), col groppo in gola e gli occhi umidi, innalza quando tutto è compiuto. Quel “Maria Mater” che sigilla l’atto finale della vittoria conquistata. La battaglia allusa, appena accennata, suggerita da di Jullo dietro le possenti muscolature in tensione dei cavalli è dunque il compendio concettuale del Palio. Velocità, potenza, scardinamento di ogni protocollo, tenzone, battaglia.

Tutta questa drammaticità trova un inaspettato contrappunto nella corona di donne accovacciate e sedute, in basso, con indosso i colori delle dieci contrade, in una composizione di movimenti che, di nuovo, fa danzare le figure. Donne rese nelle forme morbide, arrotondate, ovoidali, anche opìme, dei loro posteriori (e in questo caso sarebbe quasi doveroso – per quanto inopportuno data la presente circostanza - usare un altro termine, plebeo, ma ben più evocativo per designare questa parte del loro corpo). Donne mediterranee, le cui forme (secondo un modulo pittorico che di Jullo elabora correntemente per la sua pittura) convocano una voluta e insistita a-retoricità, sottolineata anche dalle fogge delle loro capigliature, raccolte in rassicuranti, materni, chignon.

Donne che, nel caso del nostro drappellone, guardano con partecipazione la scena, con i volti in alto e le bocche aperte in un urlo; che ignorano chi le osserva di spalle, tranne una (senza colore di contrada: allusiva di quelle che non corrono, perché di Jullo le ha volute ricordare tutte e diciassette, perché tutte e diciassette le ama) che guarda chi l’ha dipinta, come di regola in tutte le rappresentazioni di gruppi femminili del pittore.

Donne evocatrici di fertilità, presentate come depositarie non solo della prosecuzione della vita fisiologica, ma anche di quella della passione, della cultura e della memoria condivisa. In altro contesto, sarebbe venuto spontaneo rinviare alle riflessioni di Bachofen o di Malinowski o a quelle più recenti della nuova antropologia e del suo concetto di “matricentrismo” (non “matriarcato”, che è concetto diverso e altrettanto urticante quanto quello di “patriarcato”), ma tranquilli: non è questo il luogo, non è questo il momento. Se volete parlatene, tuttavia, con lui, il pittore, e capirete quanto, di tale complesso aspetto delle strutture relazionali, stia dietro un semplice gioco di forme femminili dagli ampi fianchi.

La Madonna sovrasta tutta la scena: una Madonna dal volto dolce, ma dall’espressione attraversata da una sorta di segreto motivo di mestizia. Una Madonna che, in realtà, è un busto di ceramica a immagine di quella venerata in Provenzano, come ce ne sono ovunque.

Il senso di questa scelta è preciso: non è un espediente iconografico frutto di ricerca di originalità, bensì la volontà di raffigurare una Madonna che non sta nei Cieli lontani; questa è la Madonna che convive con la nostra quotidianità; quella che incontriamo per la strada sui muri, e alla quale, furtivamente, velocemente, magari anche distrattamente, ma non senza partecipazione, si lancia un’occhiata. Di preghiera (chi crede) o di affettuosa co-appartenenza, come si fa con chiunque è parte della nostra comunità (e questo lo facciamo tutti: credenti o no).

I cromatismi che illuminano il drappellone, e il loro risultante, finale concerto sottolineano proprio questo senso di serena convivenza fra immanenza e trascendenza; sciolgono le immagini di tensione in acquietanti abbandoni. Alla fine di ciò che ha creato spasimo c’è qualcosa che ci avvolge, ci rassicura, ci dà fiducia e speranza.

Di Jullo è riuscito, insomma, a unire in questa composizione che abbiamo sotto gli occhi alcuni concetti/sensazioni che, almeno in apparenza, difficilmente paiono poter convivere: irruenza, serenità, inquietudine, ironia.

Bisogna essere davvero dei maestri per riuscire a tenere insieme così armonicamente registri tanto differenti.

Questi sono i concetti pittorici chiave dell’intera sua opera. Chi abbia avuto modo di visitare la mostra delle sue opere che, in questi giorni, è ospitata presso il Palazzo Sansedoni, alla Fondazione Monte dei Paschi, e chi si ricorda della personale di Roberto di Jullo ai Magazzini del Sale nel 2019 ben se ne rende conto. Il suo percorso artistico si riassume in questi stilemi, caratterizzati dalla scelta della centralità dello “scheletro”, dell’impianto della figura. Io – dice di Jullo – più che pittore mi sento disegnatore e per un disegnatore l’impianto dell’immagine è fondamentale.

E questo se lo porta dietro fin dai suoi primi passi nel mondo dell’immagine rappresentata.

Nato a Forlì del Sannio nel 1945, segue per cinque anni la Scuola d’Arte a Isernia (facendosi oltre 60 chilometri tutti i giorni), prima di spostarsi all’Accademia di Belle Arti di Napoli per poi trasferirsi, nel 1964, a Roma dove entra in contatto con la Farnesina e gli Istituti di Cultura Italiana all’Estero, configurandosi, per questo, come ambasciatore dell’arte e della cultura italiane in una serie di Paesi, soprattutto del Mediterraneo: è a Tunisi, a Algeri, a Atene, a Salonicco, fino alla Turchia.

Impara ad avvalersi di tutte le tecniche, partendo dall’acquaforte e dalla puntasecca su lastra di rame, per approdare alle altre, senza mai acquietarsi su una anziché un’altra. Irrequieto e incoercibile nella tecnica quanto nello stile. Alla mia domanda “chi fuor li maggior tui?”, a chi ti sei ispirato?, chi senti artisticamente vicino?, mi è stato risposto con una risata. Nessuno. Ho avuto contatto – soprattutto a Roma – con quanto di meglio c’era e c’è sulla scena dei maestri della pittura (qualche nome? De Chirico, Vespignani, Sughi, Attardi) però non ho mai aderito ad alcuna corrente, ad alcun movimento, né ho avuto alcun speciale autore cui ispirarmi. Ho sviluppato quei temi che sentivo miei nelle forme che sentivo mie: ritratti, paesaggi, donne (appunto) e cavalli.

Cavalli, sì, ma quello che oggi è uno dei soggetti-chiave di di Jullo entra, forse proprio per ultimo nel suo atelier: sostanzialmente dal 1973 quando una mostra presso un circolo ippico lo porta ad affrontare questa figura, che egli rappresenta con maniacale precisione, favorito dalle acquisizioni tecnico-anatomiche apprese nell’adolescenza. I suoi cavalli non sono mai resi in forma simbolica, astratta o allusa. Hanno fasci muscolari scolpiti, anatomie correttissime, perché di Jullo, l’anatomia, l’ha studiata a fondo e i cavalli che raffigura potrebbero comparire nelle tavole di un trattato di veterinaria.

Il soggetto diventa, da questo momento, una delle sue cifre caratterizzanti e identificative: “E’ stato ed è questo il suo tema preferito” scrive di lui Francesco Sabatini, suo, per così dire, compaesano perché è nato a Pescocostanzo, dove il pittore ha il suo atelier. Sabatini, oggi Presidente emerito dell’Accademia della Crusca, è il dominus della lingua italiana che nel 2001 commissiona a di Jullo una delle tradizionali, accademiche “pale”, che il pittore realizza rappresentandovi un contadino che ventila il grano, corredata dell’impresa araldica “L’aura mi volve et son pur quel ch’i m’era” (Petrarca, Canzoniere, 112, verso 4). E, continua sempre Sabatini, il tema (quello del cavallo) “si rinnova di opera in opera, con tutte le variazioni possibili. Il collo proteso ora verso l’alto, ora verso una meta invisibile, ora in una torsione che rivela lo spasimo”. I suoi cavalli non hanno ferri, non hanno finimenti, si affiancano l’un l’altro, perfino si aggrediscono o sembrano baciarsi, perché i cavalli per lui sono metafora della vita che alterna e fa convivere aggressività e amore.

Di Jullo negli anni della “dolce vita” di un’Italia lanciata verso il futuro e piena di ottimismo e speranze, a Roma (dove peraltro ancora lavora) si muove nel campo dell’illustrazione pubblicitaria, della scenografia (conosce Fellini, Carmelo Bene, collabora con il Festival di Spoleto per quattro rappresentazioni teatrali nel 1967). E’ collaboratore grafico per i progetti didattico-audiovisivi del Ministero della Pubblica Istruzione (tavole 21x28 realizzate a pennello e con gli script fatti con i letraset: preistoria pura). Viene chiamato quale disegnatore dei servizi del Telegiornale RAI, ma quando gli offrono il contratto per un posto fisso risponde “no grazie”. San Filippo Neri avrebbe detto “preferisco il Paradiso”, lui dice “preferisco restare libero”. Che è più o meno la stessa cosa.

La capitale e i suoi sirenici richiami, ben lo si capisce, non lo irretiscono: il legame con la sua terra sannitica non viene mai reciso: perfino in questo drappellone due minuscoli stemmi, appartati, discreti, ma tanto garbatamente quanto orgogliosamente presenti, convocano la sua origine: quelli del Molise e di Pescocostanzo, che, in questo caso, sono il suo manifesto di una coniugazione con la nostra, di terre, perché di Jullo li incastona in una sequenza che li vede affiancati alla Balzana senese e al simbolo della Toscana.

Questo Palio, del resto, non è stato prodotto nel suo atelier di Pescocostanzo e nemmeno in quello di Roma. E’ nato qui, a Siena, nello studio di un altro pittore di drappelloni, Tommaso Andreini, un artista al quale di Jullo si è appoggiato in una sorta di “laboratorio” d’antico stampo, caratterizzato da due artisti che si intendono, si comprendono, si scambiano impressioni e suggerimenti. Ed è stato dipinto, il drappellone di questo 2023, sullo stesso tavolo sul quale è stato partorito quello del 2016. Se fatto altrove, il Palio di di Jullo non avrebbe avuto, probabilmente, lo stesso carico di emozioni, lo stesso “sapore”. Ci voleva Siena, ci volevano i suoi colori, i suoi rumori, le sue luci, le sue sensazioni, la sua gente. E di Jullo ha fatto, proprio per questo, per mesi, un bagno di “sienitudine”, girando per le strade e soprattutto parlando con i senesi, continuativamente, con tutti (credo, anche con i colonnini di Piazza) per entrare dentro questa città e respirare con questa gente particolare. Parlando di Palio, sì, di Contrada, certo, ma anche di vita normale, quotidiana, di storie personali, a volte perfino piene di dolore e di tristezze. Perché è così che si capisce una comunità, è così che si capisce una città, che si capisce quel che pensa e sente. L’omaggio che di Jullo ha fatto a questo modo di essere di noi senesi sta in un piccolo, quasi appartato particolare: fra i cavalieri che combattono spunta la piramide del Colle di Montaperti, per far capire che quella non è l’evocazione di una qualsiasi scena di guerra, ma è l’evento che non si scolla (purtroppo o per fortuna: comunque inevitabilmente) dalla memoria collettiva di questa città.

A di Jullo è capitata una cosa buffa: qualcuno gli ha detto “Ma lo sa, maestro, che il Palio di luglio, lo dipinge sempre un senese?”.

Non è vero, lo sappiamo: da tempo non è più così. Però questa volta l’interlocutore del pittore ci ha dato.

In questo caso, il drappellone l’ha davvero dipinto un senese. Che sia nato altrove è un epifenomeno trascurabile, perché Roberto di Jullo ha scelto Siena come una sua altra terra di arrivo e tutto ci dice che questa città lo ha sentito e accolto come figlio suo: come senese. Gli scatti fotografici di Gianfranco Bernardo.

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