I 200 ANNI DEI ROZZI, ASPETTANDO UN CENCIO...TEATRALE

News inserita il 19-06-2017 - Palio

La dedica del drappellone di Luglio ad uno degli edifici cittadini più belli e prestigiosi. Ne ripercorriamo la storia dal 1817 ad oggi

 

Con la dedica del drappellone del 2 luglio 2017 ai duecento anni del Teatro dei Rozzi (a realizzare il Cencio sarà Laura Brocchi), Siena festeggia sostanzialmente per la prima volta (almeno nel cosiddetto Palio moderno) una ricorrenza che è a tutti gli effetti riferibile ad un edificio cittadino. Qualcosa di simile accadde nel luglio del 1982, allorché fu ricordato il centenario della morte di Giuseppe Garibaldi e, in maniera più o meno consequenziale, la statua che lo raffigura alla Lizza (in realtà cento anni prima il consiglio comunale aveva solo preso la decisione di ricordare l’Eroe dei Due Mondi con un monumento, il quale fu portato a compimento dallo scultore Raffaele Romanelli e posizionato nei ben quattordici anni dopo, nel 1896, peraltro subito oggetto di una carriera straordinaria, il 23 settembre), ma se l’oggetto è una struttura edificata, chiamatela semplicemente palazzo o in senso lato monumento, fa lo stesso, il fatto è nuovo e testimonia la non abituale vocazione ad associare la Festa alle bellezze architettoniche cittadine.

Non si può trattare del Teatro dei Rozzi senza prima fare accenno, breve ed incompleto data la vastità che richiederebbe l’argomento, all’istituzione che ne promosse e perseguì la costruzione. L’Accademia dei Rozzi, costituitasi come Congrega dei Rozzi nel 1531 per libera associazione di intelligenti artigiani amanti del teatro e delle lettere, ha come scopo gli studi relativi alle umane lettere, alle storiche discipline e alle arti, specialmente in quanto attengono al Teatro, perpetuando le sue antiche e fiorenti tradizioni (art.

3 dello Statuto): una mission, si direbbe oggi, che seppur molto allargatasi nei secoli, ne ha sempre caratterizzata l’attività, avviatasi in quel XVI secolo con le letture della Commedia di Dante Alighieri (da preferirsi in periodo di quaresima, si legge nei Capitoli del novembre 1531 redatti da Marco Antonio di Giovanni ligrittiere, detto l'Avviluppato, e da Anton Maria di Francesco cartaio, detto lo Stecchito, mentre in altri periodi dell’anno ci si poteva acculturare, e rallegrare, con i poemi del Petrarca o del Boccaccio), ben presto sostituite dalla contemporanea, allora, Arcadia del Sannazaro. Viaggia di pari passo la vocazione teatrale, che già nei primi anni di attività dette vita ad un genere popolaresco e satirico, meglio satiricheggiante, le cosiddette commedie rusticali, cioè caratterizzate da elementi mutuati da rappresentazioni tipiche del contado senese: lo snodo del 1690, allorché Cosimo III ed il governatore di Siena Francesco Maria dei Medici donano all’Accademia (è il 26 dicembre) il saloncino delle commedie posto sopra le stanze dell’Opera Metropolitana (struttura addossata al Facciatone oggi non più esistente, testimoniata però da alcune immagini di fine Ottocento), muta i connotati di quello che era un teatro sostanzialmente popolare e lo fa approdare su ben altri lidi. Le musiche barocche di Alessandro Scarlatti (l’opera che si mette in scena è L’onestà degli amori) inaugurano un anno più tardi il saloncino, composto di gradinate e (dal 1717) di sedici palchetti e adibito anche, nei periodi carnascialeschi, alla rappresentazione di testi dei rozzi accademici che talvolta incorrono nell’ostilità (La sorellina di Don Pilone, commedia-sberleffo di Girolamo Gigli, scatenò un vero e proprio putiferio…istituzionale, ma le cronache hanno definito memorabile quel carnevale del 1712) di una società che oggi definiremmo oltremodo bacchettona, retaggio della rigidissima morale cattolica imposta dal granduca e dalla stessa governatrice della città, la celebre Violante Beatrice di Baviera.

La volontà dell’Accademia di dotarsi di un teatro proprio (a Siena, per la cronaca, già esisteva il Teatro dei Rinnovati, che dal 1560 aveva preso forma nella grande sala del Palazzo Comunale per oltre due secoli sede del Consiglio Maggiore della Repubblica), è una sorta di lucida follia commissionata nel 1807 all’architetto Alessandro Doveri e portata a termine (stravolgendo il progetto iniziale di modificare le sale dell’Accademia e preferendogli una costruzione ex novo, dopo l’acquisto dei locali precedentemente occupati dall’Arte della Lana) nel 1817, inaugurata in aprile da una grandiosa festa da ballo riservata ai soci (un anno dopo, nel 1818, le danze vedranno invece all’opera il granduca Ferdinando III di Asburgo-Lorena, la figlia Maria Luisa, il principe ereditario Leopoldo e la di lui sposa Maria Anna di Sassonia, assieme a tutta la nobiltà cittadina, nell’immediato dopo Palio del 16 agosto) e dalla successiva rappresentazione de L'Agnese di Fitzhenry, opera di Ferdinando Paer, al termine della quale i settecento spettatori presenti tributarono un’autentica ovazione a Giuseppina Ronzi de Begnis, soprano milanese di fama internazionale richiestissima da Gioacchino Rossini e Gaetano Donizetti, ma pure al basso senese Antonio Matteucci. Fu una stagione lirica esaltante, narrano le testimonianze arrivate a noi dalla primavera del 1817: fra le altre, il Teatro dei Rozzi dischiuse le proprie porte a Il turco in Italia ed a L’inganno felice, entrambe opere musicate dal grande compositore pesarese.

Durante tutto l’Ottocento, passano da piazza Indipendenza (che almeno fino al periodo post unitario mantiene la denominazione piazza San Pellegrino, legata all’omonima chiesa, demolita nel 1812 proprio per creare un ingresso più grande, e consono, al teatro) le più grandi compagnie di giro nazionali, divenendo un vero e proprio tempio della lirica e della prosa italiane e, di pari passo, subendo modifiche strutturali (se ne occuparono lo stesso Doveri, ma anche Augusto Corbi e Giuseppe Partini) che lo portano a veste definitiva nell’anno 1873. E’ tra la fine del diciannovesimo e la prima metà del ventesimo secolo che il Teatro dei Rozzi conosce una ancor più intensa attività, vivendo con passione anche patriottica la stagione del melodramma e poi ospitando la grande prosa nazionale, oltre a rappresentare una ribalta che permette alla città di promuovere la propria cultura e arte: si accorre a teatro per apprezzare Cavallotti, Dumas, Benelli, Bataille, Pirandello, acclamando la musa dannunziana Eleonora Duse, l’eclettica Emma Gramatica e ancora Sarah Ferrati, un giovanissimo Vittorio De Sica, il principe Antonio De Curtis, Totò, inventore di un modo tutto nuovo di fare avanspettacolo, con le celebri macchiette mimiche del pazzo, del chirurgo, del manichino.

Non solo extra-moenia, dicevamo. Nel 1935 la ribalta tocca a L’Assetta, commedia rusticale scritta tre secoli prima da Bartolommeo Mariscalco, pseudonimo di Francesco Mariani, parroco di Marciano nonché Rozzo Appuntato: è uno dei capolavori partoriti dalla Congrega e il pubblico ne risulta entusiasta, premiando la regia del senese Valentino Bruchi e stropicciandosi gli occhi davanti alla scenografia futurista creata dall’architetto Virgilio Marchi, in quegli anni direttore dell’Istituto d’Arte. Nel 1940 e 1941 il Teatro dei Rozzi ospita due importanti rassegne nazionali di arte drammatica, nel cui cartellone spiccano il regista Anton Giulio Bragaglia e l’indimenticabile autore e sceneggiatore Luigi Bonelli. Le locandine dell’epoca ci riportano però anche ad altri eventi che erano soliti attrarre il pubblico delle grandi occasioni, su tutti l’operetta goliardica delle Feriae Matricolarum: memorabili i successi della Pia de’ Tolomei (1928) e de La torre del pulcino (1930), come del resto quello de Il trionfo dell’odore, esplosione di ritrovata allegria e volontà di dissacrazione scritta da Mario Verdone e andata in scena durante un pomeriggio (vigeva ancora il coprifuoco) della primavera 1945: fu la prima rappresentazione in città nel Dopoguerra, la osteggiarono il Comitato di Liberazione Nazionale e la curia senese perché ritenuta inopportuna in un momento nel quale le armi, altrove, si facevano ancora sentire, ma alla fine il via libera arrivò, grazie anche all’intercessione di qualche ufficiale dell’esercito britannico di stanza in città, tirato per la divisa dallo stesso Verdone.

E’ il canto del cigno, di lì a poco il teatro chiuderà i battenti a causa di problemi strutturali che portano a definirlo inagibile. Così rimarrà per mezzo secolo, stante la difficoltà da parte dell’Accademia e reperire i fondi necessari al restauro e le incomprensioni intercorse fra questa e l’amministrazione comunale. Un’impasse superata dalla stipula di una convenzione fra le parti, nel 1985 (primo cittadino era Vittorio Mazzoni della Stella), che consentì di accedere agli utili erogati dalla banca Monte dei Paschi ed investirli nella ristrutturazione e restauro dell’edificio: intervento lungo e complesso, inizialmente affidato ad Aldo Luchini e portato a termine, fra il 1996 ed il 1998, dall’architetto Massimo Bianchini, restituendo il teatro ai fasti del passato e soprattutto rendendolo fruibile alla cittadinanza, in tutto il suo splendore.

Matteo Tasso (da "Il Corriere di Siena")

 

 

 

 

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