Aspettando gli esiti dell'indagine "Time Out", si infiamma il dibattito sulla possibile cancellazione dall'albo d'oro dei tronfi sportivi biancoverdi
Sono trascorsi 35 anni da
quando, erano gli albori degli Ottanta, Albertone Sordi interpretava sul grande
schermo la figura mitologica (poi divenuta mitica) del
Marchese del Grillo. Di quella commedia all’italiana, diretta dal
maestro Monicelli, rimangono nell’immaginario collettivo una serie di scene, e
battute, rese popolari dagli infiniti passaggi televisivi degli anni a venire,
dagli upload sulle piattaforme di video sharing, dalle condivisioni sui social
network. Fra queste, il colloquio che il marchese ha con papa Pio VII
all’indomani dello scherzo intessuto ai danni dello stesso, fatto credere morto
dal contemporaneo rintocco funebre di tutte le chiese capitoline:
“Santità – dice Sordi di fronte alla
proposta di condanna -
sono disposto ad andare in galera
purché in compagnia dei monsignori Ralla, Falchi e Bellarmino, dei cardinali
Fioravanti e Bucci, del Principe Ardenghi, del duca Soffici, del conte Von
Keiper e dell'abate di Santa Maria alla Minerva...”.
Una vera e propria litania di
complici che Pio VII preferisce non conoscere oltre, tanto da rendere ben più
clemente la condanna nei confronti di Onofrio del Grillo, il quale nello
scorrere della pellicola tornerà a farsi burla di tutta la società romana. Santo
Padre compreso.
Perché il Marchese del Grillo e perché proprio quella
scena? Perché nel leggere le indiscrezioni di stampa sull’indagine “Time Out”, il cui numero di presunti
(ad oggi tali sono e non dev’esserci alcuna voglia di anticipare la giustizia,
meno che mai farne le veci) rinvii a giudizio si sarebbe allargato a dismisura
nel corso di quasi tre anni di
accertamenti e la sensazione che nasce spontanea è quella di un
coinvolgimento talmente di massa, probabilmente anche al di fuori delle mura di
Siena, da prospettare due scenari futuri: da una parte l’implosione, con
annesso crollo, di un sistema di
illeciti amministrativi talmente diffuso da far capitolare buona parte del
panorama cestistico italiano (nel quale la Mens
Sana Basket rappresentava, nel bene e nel male, la punta dell’iceberg),
dall’altra la possibilità che “decimare tutto
il Sacro Collegio e buona parte della Guardia Nobile” (per usare le parole
di Pio VII in risposta al Marchese del Grillo) sia un’impresa talmente titanica
da riportare tristemente d’attualità la retorica craxiana del tutti colpevoli nessun colpevole, col
cerino che finirebbe per rimanere sostanzialmente in mano ai soli tifosi
biancoverdi.
C’è di più, osservando col bruciore nello stomaco la
battaglia che sul web sta combattendosi da un paio di giorni fra Siena (anzi
Mens Sana) e il resto del mondo. Oggetto del contendere la reclamizzata revoca di sei scudetti, che certo potrebbe essere una
conseguenza dell’invio prenatalizio alla Federazione Italiana Pallacanestro
degli atti delle indagini, ma che ha bisogno di validi e non facilmente confutabili
argomenti per essere dimostrata, data la focalizzazione
non propriamente sportiva che l’indagine ha tirato in ballo al momento di
formulare (nel maggio del 2014) capi d'accusa e responsabilità. Perché provare
a indirizzare, mediaticamente, verso una sentenza tutta sportiva l’attenzione
popolare? Perché focalizzarsi solo su di un aspetto, peraltro ancora tutto da
confutare, che colpisce, nell’ordine, l’emozionalità
del tifoso senese (che quelli scudetti li ha visti vincere mediante una superiorità
cestistica indiscutibile), la rabbia mai
sopita di chi, altrove, ha potuto solo prendere nota del numero di targa
mensanino, la coscienza e l’etica di
un’opinione pubblica che, magari, di basket sa poco o nulla e dei contorni
della vicenda ancora meno ma è portata ad accostare la “Mens Sana di Minucci” alla “Juventus
di Moggi”?
Un buon complottista potrebbe avanzare la tesi che spostare il polverone alzato da “Time
Out” dalle stanze di una procura della repubblica a quelle di una procura
federale, farebbe tirare un sospiro di
sollievo a molti (non c’è bisogno di essere dottori in legge per
comprendere, andiamo da un estremo all’altro, la differenza che passa fra
un’eventuale frode sportiva ed un’eventuale bancarotta fraudolenta): pur non
aderendo alla categoria, quella dei complottisti, è verosimile immaginare la
lunga fila di riabilitati, scampati e miracolati che il giorno dopo l’eventuale
revoca dei sei scudetti plauderebbero alla “pulizia
fatta” per poi metterci sopra una pietra tombale e non parlarne mai più.
In definitiva dare l’ennesimo calcio nel sedere alla sola passione della gente di Siena, la gente
comune s’intende, è un finale che in molti gradirebbero veder scritto sull’ultima
pagina di questo giallo che si intitola “Chi ha ucciso la Mens Sana Basket?”.
Un caso che, nel frattempo, la sua condanna sportiva già l’avrebbe comminata facendo
passare Siena, in un’estate, dal biancorosso
dell’Olympiakos al (detto col massimo rispetto) biancorosso dell’Use Empoli. Ma di questo pare essersi accorta,
tanto per cambiare, sempre e solo la gente di Siena.
Del resto, citando di nuovo il Marchese del Grillo nel
momento in cui, beffardo, evitava il gabbio: “Scusate, ma io so io e voi nun siete un…”.
Matteo Tasso