Un cammino solidale alla scoperta di sé e di una delle regioni più povere del mondo
Matteo ha 35 anni, la voce calma e lo sguardo sincero, ha una laurea in ingegneria e a breve prenderà la seconda, in psicologia, nulla a che fare con la prima, ma che fa parte di un percorso fatto di quesiti su un aspetto umano ed emozionale che per anni ha ignorato o forse solo evitato. Matteo a tutte queste domande qualche risposta l’ha trovata, in un viaggio, in Africa.
La sua avventura è iniziata il 28 Ottobre 2016 e nonostante sia tornato a casa, in Italia, a Chiusi, il 18 Novembre lui stesso dice di essere solo al principio di questo viaggio. Un itinerario iniziato ancor prima del cammino di Santiago fatto quest’estate, che lui stesso definisce “polvere” rispetto tutto quello che l’Africa gli ha dato. Sì perché Matteo è andato lì, in Malawi, per dare, per fare qualcosa che gli riesce ed è tornato con un bagaglio “puzzolente” ma pieno di esperienze, di incontri, che lo hanno riempito.
Direzione lavori per la costruzione di case adibite ad abitazione di infermiere: donne malawiane che erano costrette a percorrere 30/40 km per raggiungere l’ospedale Pirimiti dove lavorano. Questo è stato il suo lavoro, questo è quello che Matteo ha fatto, ma che dice così poco di lui e della sua esperienza. Matteo ha incontrato l’Africa povera e sporca, senza trasporti e elettricità, che lo ha portato a domandarsi “perché preoccuparsi di cose che non esistono” come quelle volte che vedeva le bambine di 5 anni farsi 20 km a piedi per vendere un mango e pensava alla sua nipotina della stessa età così piena di oggetti e di affetti.
Raccontandomi la sua storia, Matteo mi parla di Zahara, direttrice sanitaria dell’ospedale, che lo ha accompagnato nel suo percorso; di 12 avvocati tedeschi che spendono mesi della loro vita a difendere uomini condannati all’ergastolo ingiustamente. Dei mille volti incontrati gli è rimasta impressa una giovane coppia che ha deciso di andare a vivere in Africa ed ha aperto un ristorante. “Sono partiti anche quando potevano restare” mi confida Matteo “vedevo qualcosa che difficilmente si nota qui in Italia, umanità e sofferenza nella condivisione pura.”
Guarda al suo passato, lo valuta con occhi diversi, oggi si confronta in un modo nuovo con il presente, tutte quelle cose che non vedeva intorno a sé, l’Africa le ha schiarite: “In Occidente domina l’individualismo, in Oriente il collettivismo, nel Sud del mondo non ci si pone neppure il problema.”
Matteo si è innamorato dell’aspetto umano, intuendo qualcosa che prima aveva solo ipotizzato, creduto ma mai esperito, la felicità sta nel donare, ed anche se aveva già vissuto esperienze di volontariato mi dice: “prima sapevo che era giusto farlo ma non l’avevo mai provato, solo tramite l’altro conosci veramente te stesso.” Gli domando se vorrebbe rifare un’altra esperienza di questo tipo e il suo sguardo non lascia dubbi: “sicuramente, potenziando sia l’aiuto umano che ingegneristico”. E non solo lo consiglierebbe a tutti ma lo vede come un requisito fondamentale per vivere. Come l’esame della patente a 18 anni.
Quelle donne, quelle infermiere oggi sono vicine al luogo dove lavorano, possono tornare a casa per allattare, essere vicino all’ospedale e alla famiglia, ma nonostante l’aiuto tangibile si veda, Matteo ci tiene a precisare: “Quello che mi porto a casa non è l’aver aiutato materialmente queste persone, avergli dato una casa…”
L’ho guardato tutta la sera Matteo, per capire cosa gli fosse rimasto e alla fine ho capito: il sorriso.
Elisabetta Crezzini