MARCO SOLFRINI E LA MENS SANA, TRE STAGIONI DA RICORDARE

News inserita il 26-03-2018 - Mens sana Basket

Il campione bresciano si è spento sabato, a soli 60 anni. Aveva battezzato nella Pantera i suoi tre figli 

L’ultimo flash in biancoverde di Marco Solfrini è quello scattato in una tiepida domenica di fine maggio. Era il 1994, diciassette punti segnati nella passerella contro Torino, con la Mens Sana già promossa in A1 da tre giorni e con una grande festa iniziata ben prima della palla a due di quella partita. L’ultima nella carriera del “Doctor J italiano”.

Ci ha lasciato sabato scorso, Marco Solfrini.

Aveva da poco compiuto 60 anni, un colpo basso (uno dei troppi, ultimamente) per tutti quelli che a Siena avevano imparato a conoscere l’uomo, prima ancora del giocatore. Personaggio lontano anni luce dagli stereotipi dell’atleta professionista, apparentemente silenzioso e schivo (retaggio della formazione giovanile presso i comboniani) ma in realtà simpaticissimo e  depositario di una cultura che è difficile trovare nel mondo dello sport: in quegli anni leggeva tre libri a settimana e si era appassionato alla coltivazione dei bonsai (era uno spettacolo vederlo curare con delicatezza minuscoli rametti e foglioline, lui che aveva braccia smisurate e mani oversize, capaci di avvolgere il pallone come fosse un’arancia), oltre a seguire con attenzione la crescita dei suoi tre figli, che vivevano assieme a lui (ed alla sua prima moglie) nella graziosa casa con giardino che lo ospitava a due passi dal centro, in via Mameli.

Si era fatto anche crescere il codino, ma quella pare fosse stata una sorta di “rivincita” contro il regime ferreo al quale l’aveva sottoposto, nel suo primo campionato in viale Sclavo, Dado Lombardi. Non era stata una bella esperienza, già dalla prima partita estiva: un match all’aperto, giocato il 20 agosto a Monsummano contro Montecatini e perso di tre punti dopo un supplementare, al termine del quale Solfrini, in debito di ossigeno come tutti i suoi compagni e gli avversari, aveva sparacchiato il tiro del pareggio mandando su tutte le furie il coach, che da quel momento lo retrocedette nelle rotazioni e si  ricordò di lui solo dopo diversi mesi, a stagione ormai quasi compromessa. Poi era arrivato Valerio Bianchini, col quale ai tempi del Bancoroma aveva vinto scudetto, coppa campioni, intercontinentale, e le cose si erano normalizzate, in campo e fuori: tanto da ritrovare il gusto di scrivere per un quotidiano locale (lo aveva già fatto negli anni trascorsi a Udine e Fabriano) con toni brillanti ma pacati, almeno fino a quando un suo pezzo sulla Nazione non piacque ai piani alti federali, solerti nell’affibbiargli un ridicolo turno di squalifica causa lesa maestà (…) nei confronti della classe arbitrale.

Dopo la promozione con Cesare Pancotto, cestisticamente parlando il suo anno più bello, aveva deciso di appendere le scarpe al chiodo ma Siena gli era rimasta nel cuore, andare a rileggersi ciò che pochi mesi fa ha scritto per il volume “Mens Sana, semplicemente” per rendersene conto. Un legame nato nei tempi del “Trofeo Affogasanti”, giocando per le Due Porte e finendo per battezzare i figli in Pantera, anni nei quali Marco era sempre ad un passo dal firmare con Siena (il buon “Donde” Corradeschi, mi ricordavano giusto ieri sera al palasport, mormorava spesso e volentieri di avere “Solfrini nel taschino”), salvo poi spiccare il volo per la Capitale forte di un argento olimpico a Mosca 1980 e, purtroppo per lui, non dell’oro europeo di Nantes 1983, rimasto fuori dai dodici di Sandro Gamba per un malaugurato infortunio al ginocchio.

Le sue schiacciate da Nba (non a caso fu accostato a Julius Erving) certi suoi tiri in sospensione dalla parabola impossibile da stoppare e tutto il campionario di giocate atletiche che resero basket la pallacanestro tricolore tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, ve li hanno raccontate in queste ore i media nazionali. Inutile replicarli. A noi rimane la testimonianza del suo passaggio, di persona e di cestista, e bene ha fatto la Mens Sana di oggi ad esporre domenica sera la sua maglia numero 13. L’aveva indossata nel match della promozione a Padova, il 19 maggio del 1994, e rispettando una promessa fatta dopo l’incredibile vittoria di inizio playout a Fabriano l’aveva regalata a Marco Decandia, che per una sera l’ha riportata sul parquet dove Solfrini ha scritto un pezzetto di storia biancoverde.

Matteo Tasso

 

 

 

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